La Repubblica
Mozgovoy: “Se l’Europa non protesta, diventerà come la Russia da cui sono dovuto fuggire perché gay”

Intervista con l’autore del romanzo biografico di formazione “Primavera in Siberia”:
“Ho lasciato il mio Paese non per le vessazioni, ma perché alla gente non importava delle persecuzioni. La Ue non faccia lo stesso errore”
di Rosalba Castelletti
È un romanzo biografico di formazione, ma anche un memento per l’Europa, dice Artem Mozgovoy. Primavera in Siberia, da ieri nelle librerie italiane per Astoria editore, racconta la travagliata adolescenza del giovane Aleksej che cresce in una cittadina al centro della Transiberiana negli anni del crollo dell’Urss. Un outsider fin dall’infanzia bullizzato perché preferisce la letteratura al gioco di guerra “Zarnitsa” e vessato quando scopre di amare il suo compagno di studi Anton.
“Se l’Europa non protesterà, se non fermerà i piani di aggressione della Russia, il suo futuro sarà come il Paese che descrivo nel mio libro e da cui sono stato costretto a fuggire perché gay”, dice a Repubblica in collegamento da Bruxelles dove ora vive col compagno.
Nato come il suo protagonista nel 1985, l’anno della perestrojka, in una piccola cittadina del bacino carbonifero Kuznetsk, regione di Kemerovo, ex giornalista locale, Mozgovoy ha lasciato la Russia a 26 anni quando è iniziata la persecuzione legalizzata degli omosessuali col divieto della “propaganda gay” a cui due anni fa si è aggiunto il bando per estremismo di un fantomatico “movimento internazionale Lgbtq+” e lo stop alle transizioni di genere. “Primavera in Siberia – dice – è la mia storia, è la storia della mia famiglia. Tutto quello che ho scritto è successo a me”.
– La Siberia evoca l’inverno, il confino, la prigionia. Come nasce il titolo “Primavera in Siberia”?
Sembra un ossimoro, ma la primavera esiste anche in Siberia e ogni volta è una rivoluzione, un evento miracoloso, qualcosa di forte e allo stesso tempo fragile. Ogni anno vince l’inverno a dispetto di tutto e ci dà un po’ speranza. Certo, a livello politico, in Russia è sempre inverno, non ci sono mai state estate. Ma la primavera è possibile, a livello personale. Come per questo ragazzo, Aleksej, quando scopre per la prima volta le poesie di Anna Akhmatova”.
– La primavera del titolo è anche un’allusione alla perestrojka?
La perestrojka è stata un risveglio. Ad esempio, per mia madre. Fino agli anni Novanta sembrava ibernata, come la “principessa di Altai”, la mummia scoperta nella sua regione di origine. Lavorava in fabbrica senza convinzione e poi si è svegliata di colpo. Nell’aria c’era eccitazione. Ma è stato anche un periodo spaventoso. Sono comparsi i mafiosi, gli avtoriteti. Convivevamo con la paura, una sensazione che mi ha segnato a vita. Anche in una piccola cittadina come la nostra, imparavi fin da piccolo che non dovevi mai aprire la porta a nessuno, perché chi poteva entrare aveva le chiavi e chi non le aveva non doveva entrare. Tuttavia, il sentimento prevalente era l’ottimismo, la speranza. Con la perestrojka, pensavamo che il domani sarebbe stato migliore. Sognavamo di entrare in Europa, convinti che Bruxelles avrebbe rifatto le nostre strade e le nostre case, che saremmo stati affogati in un tsunami di Coca Cola. La situazione attuale affonda le radici là, in quelle speranze tradite. È diventato subito chiaro che la Russia in Occidente non era la benvenuta, che per l’Occidente avremmo dovuto restare inginocchiati come i perdenti della Guerra Fredda. Bastava andare una volta in un’ambasciata occidentale. Putin ha sfruttato questo imbarazzo nazionale, questa vergogna generale, per invadere l’Ucraina. Ha capito che la maggior parte dei russi voleva vendicarsi. La primavera della perestrojka non è sfociata nell’estate, ma direttamente nell’inverno. Sfortunatamente”.
– Neppure l’amore del protagonista con Anton è stato una “primavera”…
Nello stesso momento in cui io e “Anton” abbiamo iniziato a mostrarci insieme, abbiamo iniziato a subire violenze verbali e fisiche. A casa, a scuola, per strada. La nostra vita è diventata una lotta costante. E non potevamo chiedere aiuto a nessuno: non alla polizia, non ai nostri insegnanti, non ai nostri genitori e neppure a mia nonna che penso sia stata la cosa migliore che mi sia mai successa tanto che le ho dedicato il mio libro. Perciò abbiamo capito che non c’era altra alternativa che cercare una via fuori dal Paese. La differenza tra noi e altri gay russi era che noi ci rifiutavamo di mentire. Pure alle gang o agli insegnanti. Nel libro non l’ho scritto, ma a 18 anni una tv locale mi chiese di realizzare un documentario su di me in quanto “unico gay dichiarato in tutta la regione”. Dissi di sì pensando che fosse un modo per combattere per i miei diritti. Il giorno in cui mandarono in onda il documentario mi chiamarono consigliandomi di non uscire di casa perché avevano ricevuto migliaia di telefonate con minacce e insulti”.
– Lei è nato nell’Urss, ma è cresciuto in Russia. Ha dichiarato la sua omosessualità in un Paese in cui essere Lgbtq+ è di fatto illegale. A 19 anni è partito e vissuto in cinque Paesi prima di approdare in Belgio. Quanto è stato difficile il suo percorso di costruzione dell’identità?
Quando qualcuno mi chiede di dove sono, vorrei rispondere che vengo da Narnia. Faccio fatica a definirmi russo. Sono un cittadino lussemburghese che vive in Belgio dopo aver vissuto in altri cinque Paesi ed essere cresciuto a cavallo tra l’Urss e la Russia. Il mio partner è rumeno e il mio Paese preferito è l’Italia. Dico sempre di essere un cittadino del mondo, anzi un “chelovek mira”, perché in russo “mir” vuol dire sia “mondo” che “pace”. Ho riscoperto la mia identità russa soltanto quando è scoppiata la guerra in Ucraina perché, benché vivessi già da oltre dieci anni all’estero, me ne sono vergognato. E ho sentito che fosse mio dovere, proprio inquanto russo, fare qualcosa. La lingua in cui sono cresciuto sarà sempre con me. Ma ho scelto di scrivere in inglese perché penso che la cosa più forte che possa fare uno scrittore per denunciare la propria patria sia abbandonare la propria lingua madre. Almeno per il momento. Mi sono anche unito alla Croce rossa in Belgio per aiutare i rifugiati ucraini. E ho raccolto le loro storie nel mio secondo libro Living no lie il cui ricavato va interamente a loro”.
– Perché ha deciso di lasciare la Russia?
Non me ne sono andato via per le discriminazioni, la mancata accettazione o l’intolleranza, ma perché la gente già allora sembrava fregarsene. Noi Lgbtq+ siamo stati la prima minoranza a essere stati attaccati. Nel 2011 San Pietroburgo ha applicato la legge anti gay prima che fosse approvata a livello nazionale e il fatto che neppure i russi liberali abbiano protestato per me è stato difficile da digerire. Quando pochi di noi hanno cercato di protestare a Mosca e sono stati picchiati da polizia, skinhead e rappresentanti della Chiesa ortodossa russa, in Russia non importava a nessuno, neppure all’élite culturale. Nessuno ne parlava. Nessuno si faceva avanti. Nessuno denunciava. I media non ne scrivevano. Nessuno contava quante persone in tutto il Paese venivano umiliate, picchiate o uccise per essere Lgbtq+. Come del resto nessuno ha reagito davanti alla guerra in Cecenia, all’uccisione di Anna Politkovskaja o al massacro a Beslan. Non ho molta simpatia per i russi che sono rimasti. È importante mettere in chiaro chi è l’aggressore, la Russia, e chi è la vittima, l’Ucraina. I dissidenti russi in esilio che combattono per la “Bella Russia del futuro” mi fanno orrore. Ora bisogna combattere per la vittima, protestano vittima, per la “Bella Ucraina del futuro”. Non possiamo tentennare. Perché gli statunitensi non protestano come fecero dopo l’uccisione di George Floyd? Mi fa pensare. Da russo, vi dico che se gli europei non protestano oggi, se l’Europa non fa nulla per proteggersi oggi, domani sarà tardi. E il futuro europeo sarà la Russia. Sarà vivere nel Paese che descrivo nel mio libro, un Paese dove essere omosessuale è illegale, dove i giornalisti e gli oppositori vengono uccisi come mosche, dove gli uomini possono picchiare le donne impunemente”.
– Pensa dunque che il popolo russo sia complice dell’aggressione militare in Ucraina?
Nella mia esperienza personale, prima viene la gente e poi i leader. Lev Tolstoj diceva lo stesso: che era sbagliato addossare tutta la colpa su Napoleone. C’è una responsabilità che comincia a livello individuale. L’ho visto a tutti i livelli. Ai miei amici dicevo che era terribile quello che mi stavano facendo. E loro mi suggerivano di non alzare la voce. I russi sono estremamente omofobi e allora il presidente russo ha sfruttato questa omofobia approvando le leggi anti-gay. Non è andata al contrario. Ho visto russi indossare le uniformi militari sin da quando ho memoria. Mio padre andava in dacia in mimetica a piantare le patate. Sfortunatamente credo che la maggior parte volesse una guerra e per questo l’abbiamo. Ci sono anche brave persone, molte non sono riuscite a lasciare il Paese. Ma vorrei sempre chiedere loro: dov’eri prima? Perché questa deriva non è cominciato il 2022. Ora per i russi è troppo tardi. Sono molto pessimista per il futuro russo. Ma ho speranza per il futuro europeo e ucraino. Per questo mi rivolgo agli statunitensi e agli europei e chiedo: perché non protestate adesso? Fare un like a un post sui social non è abbastanza”.